lunedì 13 settembre 2010

Vogue Fashion's Night Out: La Review

Il mio parere sulla serata ovviamente non può che essere positivo, vista l’unione di sguardi (ma non di corpi) con Luca, tuttavia vorrei fare il punto su un appuntamento che pare avrà cadenza annuale.
Le vie del centro giovedì sera erano affollate di gente, le macchine non passavano, la gente spingeva e i bidoni della spazzatura erano oberati di rifiuti.
Praticamente un qualsiasi sabato milanese.
Non voglio minimizzare il successo dell’evento, devo riconoscere che per i negozianti è stata veramente un’ottima occasione per avvicinare la clientela, ma bisogna riconoscere che quello che si è visto giovedì è stato più simile ad una sagra paesana che ad un evento di città.
In quanti avranno veramente venduto?
In effetti io ero dentro il negozio di Alberta Ferretti, al cospetto di quelle opere di chiffon e swarovski declinati in tutti i lilla, in tutti gli azzurri e in tutti i verdi del mondo.
Ero terrorizzata all’idea di toccarli, sporcarli e trovarmi costretta a vendere un pezzo di rene per pagare i danni. La cosiddetta Milano Bene non c’era, non c’erano le sciure di Milano (quelle con la pelliccia e la borsa di Prada per intenderci) mentre invece c’erano il corrispettivo italiano delle signore che bevono il cappuccino con la pizza e si trovavano con me da Alberta Ferretti, con tanto di ciabatta e marsupio argentato in tinta con l’ombretto. Che poi, una si chiede: ma queste compreranno?
La risposta? Erano 3 vecchiettine talmente variopinte che una mia collega mi ha detto ‘guardale: siamo noi da vecchie’, entrate per scroccare il bicchiere di prosecco.
In effetti la VFNO è la sagra della moda, è il modo in cui i castelli del lusso di Prada, Gucci, Bulgari, Celine, Valentino, Dior (e vado a caso eh) si sono aperti al pubblico per far entrare il popolo.
Era gente di provincia, come già saggiamente anticipato dalla Donna Letizia sulle pagine di Vanity (sì l’ho comprato, ero curiosa di leggere la confessione della Marcuzzi su come abbia ceduto al fascino irresistibile di FFacchinetti), gente come me, o meglio come me 4 anni fa, appena arrivata a Milano, quando ogni giorno era una Fashion Night Out, quando ero talmente affascinata dalle vetrine che vedevo a un lato e all’altro delle strade che la sera quando cercavo di addormentarmi sentivo di avere il torcicollo, quando come oggi, ancora ho il timore ad entrare in quelle grandi boutique, con le commesse che ti scrutano (e ti giudicano, come i pizzaioli) nonostante oggi mi ritrovo a doverci lavorare con questi grandi marchi.
E’ stata la festa della gente comune, della gente di Bergamo, di Brescia, di Pavia: gente che si è messa il suo vestito migliore per camminare per le vie del centro, mischiandosi ai soliti modaioli di città (ma ovviamente sempre di provincia).
Una cosa è chiara: Milano, e non solo ieri sera, è fatta di provincia, della provincia italiana media, della provincia veneta, emiliana, romagnola, barese (mamma quanti baresi ho conosciuto in 4 anni), torinese, sarda, toscana, friulana, tarantina e sondriese… siamo noi, trapiantati nella capitale economica italiana, a tirare avanti il mito della Madunina e dei lavoratori stakanovisti, il mito della cotoletta e del popolo della Moda!
Io sono tornata a casa provando una discreta dose (di scompenso ormonale a causa di Luca, ma anche) di tenerezza: ho provato tenerezza per tutti quei poveri negozianti che si sono dovuti inventare la qualunque pur di rientrare nel carrozzone della sagra più famosa del mondo, tenerezza per tutte quelle povere commesse che hanno lavorato tutto il giorno a servire clienti, poi hanno dovuto allestire il negozio con la consolle del dj, i vassoi di stuzzichini e infine hanno indossato il loro migliore sorriso per accogliere le orde di turisti della moda giunte a Milano per comprarsi quei fantomatici prodotti speciali in edizioni limitata (t-shirt a 45/80 €, smalti a 25 €), tenerezza per questa gente comune, come potrebbe essere mia madre che non ha mai visto una passerella, che finalmente ha avuto modo di vedere delle modelle, modelli, testimonial, stilisti e celebrities uscire dallo schermo e dalle pagine dei giornali e farsi carne (poca) e ossa (molte) davanti ai loro occhi nelle strade o dietro le vetrine (da Versace c’erano i modelli in vetrina: e pensare che Energie lo fa ogni sabato!).

Nel complesso trovo la VFNO una grandissimi iniziativa di marketing che si distacca -e molto- dalle fashion week propriamente dette, quando la città si paralizza per due ore di pioggia e due sfilate nel giro di venti minuti in due quartieri diversi: no questi sono problemi che la città ama lasciare a noi del mestiere, a noi ‘addetti ai lavori’ , a noi che amiamo combattere con il coltello a serramanico tra i denti per un taxi tra Anna Dello Russo seguita da una telecamera e Simona Ventura con la macchina blu, a noi che ci alziamo alle 7,30 della domenica per essere in quella location in culo a Milano alla sfilata di quel brand di nicchia che sfila sempre alle 9, a noi che veniamo calpestati all’ingresso delle sfilate perché l’ultima stagista arrivata non ti ha compreso nella lista degli ingressi e tu hai lasciato il cartoncino dell’invito a casa, a noi che ci mettiamo la nostra mise più stravagante con la speranza di incontrare Scott Schuman e finire su thesartorialist il giorno dopo.
La VFNO in realtà mi sembra la seconda linea della Fashion Week. Se la fashion week è Dolce & Gabbana, la VFNO è D&G. Se Miu Miu è la VFNO, Prada è la Fashion Week. Se Ralph Lauren è la Fashion Week, Polo Ralph Lauren è la VFNO (spero che l’equazione sia chiara)!
Tuttavia questo paragone mi torna utile per rendere l’idea di quanto siano importanti le seconde linee per realizzare fatturato (ah, ne so qualcosa) e di quanto è utile una serata come questa per togliere quel velo (?) di snobismo che ancora avvolge il settore della moda.
Perché se facessimo finta che lavorare nella moda fosse come lavorare in una panetteria o alla cassa della Despar, forse la gente la smetterebbe di pensare che quelli della moda sono tutti stronzi e forse quelli che fanno gli stronzi smetterebbero di farlo solo perché ‘d’altra parte si sa, la moda è anche questo’, così forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di far lavorare le commesse fino alle 11 di sera per 'avvicinare la moda alla gente comune' manco fosse una concessione papale, o inventarsi ogni sorta di iniziativa speciale in negozio e anche quelli che ci lavorano come me, smetterebbero di avere il timore di dire che lavoro fanno quando tornano in provincia perché hanno paura di essere presi come gente di città, gente che se la tira ‘perché lavora nella moda’.

La moda è un settore come un altro, non vi è nulla di chic, nulla di snob se non il prodotto al centro delle comunicazioni, e di certo non ci si aspetta una Night Out per avvicinare la gente al mondo delle acciaierie. Smettiamola di far credere che si tratti di qualcosa di diverso: vendiamo fuffa, vendiamo sogni, vendiamo favole, tanto quanto gli attori vendono storie e i registi ce le fanno vivere.
Tutti possono avere una VFNO un sabato a Milano, i prodotti speciali non ci sono sempre, ma quello che nessuno vi dice, è che tutti, ma dico tutti, i brand hanno almeno una maglietta sotto i 100 (150?) €.
E soprattutto, nessuno mai vi dirà che è quella che vendono di più.

[Che poi, volesse il cielo che questa VFNO diventi veramente un evento annuale... purchè Luca Argentero ne diventa la madrina!]


2 commenti:

  1. Egregia zitella acida,ti sei rammaricata che per le strade di Milano hai visto solo provinciali,a me invece sembra che proprio queste manifestazioni che vengono attuate da vari capoluoghi di provincia di tutta Italia,siano proprio la vera dimostrazione che noi italiani,siamo un vero popolo di Cafoni,lo ribadisco e lo confermo.
    Si denota soprattutto dal fatto che una persona vestita un pò modestamente che entra in un negozio che vende roba firmata,viene guardata come un extraterrestre.
    Allora mi chiedo e mi sono sempre chiesta,ma la signorilità la fanno veramente i soldi?
    Che schifo,più cafoni di così!

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  2. A dire il vero la VFNO è un evento mondiale quindi si deduce che lo snobismo della moda è qualcosa di generalizzato. Anzi, a dirla tutta è partita da NY e le capitali europee hanno seguito il codazzo.
    La signorilità, o meglio la classe, non è mai stata e mai starà nei soldi (basta guardare Paris Hilton) ma forse solamente nell'adeguata maniera di usarli.
    Non credo che la cafoneria sia una caratteristica prettamente italiana (vogliamo parlare dei francesi? degli americani?), credo invece che ci siano delle consuetudini comuni in tutto il mondo, come quella di squadrarti quando entri in un negozio.
    Ma d'altra parte, non so te, ma a me non me ne frega poi così tanto di come mi guardano le commesse: se mi fanno passare la voglia di entrare quelle che ci rimettono solo loro.

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